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<<Credo che l’ennesima tragedia, consumata contro una donna, ponga alla coscienza di tutti il bisogno di fare qualcosa perché questi fatti non avvengano più. Credo che lo spaesato cittadino, addirittura, si chieda cosa “lui” possa fare; così, mi auguro che le nostre Istituzioni e i nostri decisori politici si pongano analoga domanda.

Certo noi psicologi ce lo chiediamo, per formazione personale, per etica, per professione. Ciò che sto per dire spero non susciti a nessuno pensieri di “sfruttamento”, che non è assolutamente nelle intenzioni né dello scrivente né dell’organizzazione cui appartengo.

Il pensiero molto modesto è questo: ammesso che quel soggetto, alle prese con fantasie o propositi femminicidi avverta, dentro alla sua dimensione semi delirante del suo intendimento, la necessità di ricevere un aiuto, cosa potrebbe fare o dove si potrebbe rivolgere di fatto? A me non viene in mente altro che una struttura “facile” e “veloce” cui rivolgersi e che preveda “qualcuno”, ritenuto in grado di ascoltarlo senza pregiudizio né conseguenze immediatamente penali, competente ed esperto.

Penso sia condivisibile da tutti gli psicologi questa nostra prerogativa professionale di offrire aiuto a chi ce lo chiede, indipendentemente dai nostri valori personali, culturali e sociali. In quanto alla struttura, cosa di più ovvio, e già esigibile, che non le cosiddette Case di Comunità? E rispetto all’operatore, sto ovviamente pensando allo Psicologo delle cure primarie o di base.

Non bisogna essere troppo visionari per individuare come la sua caratteristica e le sue funzioni, così come previste dalle diverse normative, facciano di questa figura una immediata ed efficace risposta. Intanto la sua collocazione sul territorio e non in un ambulatorio di una qualche struttura ospedaliera; ovvero in prossimità con la gente “comune” (senza che si rinforzi cioè quel sentimento di sentirsi “etichettato” tipico di chi si rivolge a un servizio della salute della salute mentale o di conflitto nel caso del proprio medico di base che magari ha come pazienti anche i propri genitori o addirittura la propria fidanzata ecc.).

Inoltre, la facilità dell’accesso (si spera senza prescrizione medica e/o altri filtri) rappresenta davvero una grande opportunità per tentare di avvicinare tale anaspecifica psicopatologia. Non voglio apparire velleitario, conosciamo bene le resistenze consce e inconsce di certe forme silenti di sofferenza psichica, e non sarà certo il sapere che c’è qualcuno che potrebbe ascoltare e condividere la disperazione, che comunque si annida sempre dietro questi gesti spaventosi, a far sì che si evitino tali sciagure.

Però perché non provarci? Quindi, cari amministratori, un colpo di reni, abbiate la forza di fare, oltre che di dire. C’è già tutto!>>

Segretario Nazionale AUPI, dott. Franco Merlini

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